giovedì 29 novembre 2007

Generazioni e progetti culturali

Quel che importa non è vedere
la soluzione, ma l’enigma.

Ernst Jünger


Nella situazione attuale dell’architettura italiana –ammesso che essa esista per davvero e non sia soltanto l’architettura che si realizza in Italia– sono attivi cinque progetti culturali. Essi si articolano per fasce generazionali, pur se hanno a che fare più con suddivisioni anagrafiche che con una vera e propria idea di generazione intesa come un’ideale comunità di architetti uniti da un sentire condiviso. Quella di generazione è in effetti una nozione ambigua, oltrechè temporalmente imprecisa, nel senso che è difficile stabilire quanti anni separino una dall’altra. Non si può per un verso negare chi fa parte di classe d’età non possieda molti tratti simili a quelli dei coetanei, ma è altrettanto vero che non si può ridurre l’azione di un qualsiasi architetto alle categorie, ai miti e agli obiettivi che la sua generazione si è data. C’è anche da dire che le generazioni non agiscono in condizione di isolamento ma si confrontano spesso con le generazioni precedenti e successive. Nonostante queste avvertenze non c’è dubbio che è ampiamente lecito, e soprattutto utile, pagare un certo prezzo a qualche schematismo argomentativi per comprendere a grandi linee una situazione complessa e contraddittoria come quella che l’architettura italiana sta vivendo da anni, anche a causa del grandissimo numero di architetti attualmente operanti. Prima di iniziare una sintetica rassegna dei cinque progetti culturali occorre chiarire il senso di queste due parole. Per progetto culturale chi scrive intende un’area problematica piuttosto ampia e dai confini non esattamente ritagliati anche se chiaramente riconoscibile nei suoi elementi principali i quali conservano, per contro, una sensibile capacità di oscillazione. Forse, più che di un’area, bisognerebbe parlare di una nebulosa dai contorni variabili al cui interno è però possibile individuare due o tre astri più brillanti. Nell’area o nella nebulosa, in altri termini, si rintraccia sempre la presenza di un tema centrale capace di gerarchizzare l’intero sistema di valori e di motivi che accompagnano il tema stesso. C’è infine da aggiungere che il progetto culturale evolve nel tempo nelle sue formulazioni contingenti, ma rimane di fatto inalterato nella sua sostanza.

Il primo progetto culturale riguarda gli architetti che oggi hanno tra i settanta e gli ottant’anni. Si tratta di un gruppo di progettisti le cui opere si pongono tutte sotto il segno di un rapporto autonomo e consapevole nei confronti dell’architettura moderna. Scorrendo le biografie degli architetti di questa generazione, biografie peraltro estremamente diversificate, si può infatti constatare agevolmente come l’intera loro attività sia stata ispirata dalla ricerca di una linea alternativa al dogmatismo modernista, sentito come un vincolo dal quale affrancarsi prima possibile. Per alcuni fu il ricorso all’immaginario storico ad aprire nuovi scenari teorico-operativi, un immaginario spesso affiancato a meditazioni sul costruire come dialogo profondo e prolungato con le preesistenze; per altri fu essenziale il riferimento al principio insediativo per delineare una teoria generale dell’architettura; per altri ancora il recupero di una tradizione locale colta, in una anticipazione sofisticata del regionalismo rappresentò l’occasione di un itinerario espressivo intenso e introverso, senza dimenticare orientamenti più liberi, ispirati a formalismi vissuti più o meno consapevolmente, inseriti in strategie compositive di carattere sperimentale, spesso legate alla mutevolezza delle circostanze. Attraverso il lavoro degli architetti nati dalla fine degli anni venti fino alla metà del decennio successivo la modernità ha perduto quel carattere astratto, e in qualche modo oppressivo, che si traduceva in rituali progettuali intrisi di meccanicismo e di una pregiudiziale ripetitività, per guadagnare un più vasto arco di espressioni architettoniche in grado, per la loro stessa articolazione, di dar vita a un dialogo sincero e profondo tra luogo e contesto, tra memoria e futuro, tra regola e caso.

Il secondo progetto culturale è stato proposto e sviluppato dagli architetti la cui età va dai sessanta ai settant’anni. In continuità con la generazione precedente, con la quale hanno dato vita a un confronto costante, a volte polemico, gli architetti citati si sono misurati sostanzialmente con il problema del linguaggio all’interno di quella nuova condizione che determinò la loro formazione, ovvero la scuola di massa. Una scuola che richiese parole d’ordine pensate come slogan a comprensione istantanea e a vocazione omologante. Già molto orientati in senso politico-ideologico; fortemente segnati, poi, dal ’68 che radicalizzò quell’inclinazione; influenzati in modo indelebile dalla ripresa di interesse per le avanguardie che si verificò all’inizio degli anni sessanta; protagonisti alcuni di essi, della stagione dell’architettura disegnata, un periodo cruciale ancora da studiare nella sua reale consistenza, questi architetti fecero loro fino in fondo il progetto di crisi di Manfredo Tafuri. Il loro progetto culturale, che ebbe tra i suoi risultati la nascita del postmodernismo, non ha avuto successo in quanto tale, anche se non si può parlare di un suo vero e proprio fallimento. Questo giudizio negativo non vale, però, per gli esiti individuali, a volte notevoli. Privi di critici coetanei che si siano occupati di loro in quanto appartenenti a una stagione comune –Francesco Dal Co e Fulvio Irace non si sono infatti dedicati alla loro generazione trattandola, come sarebbe stato necessario, al modo di una situazione dotata di una sua identità, limitandosi a scrivere in modo discontinuo di alcuni di loro– ma come casi isolati coloro che hanno superato la soglia dei sessant’anni vivono paradossalmente, dopo aver attraversato i vent’anni centrali della loro vita tra terrorismo e tangentopoli, un continuo inizio. Come un incessante ricominciare da zero la loro vicenda architettonica conosce cicliche e a volte drammatiche ripartenze.

Il terzo progetto culturale è quello formulato dagli architetti che hanno oltrepassato da poco o stanno adesso oltrepassando i cinquant’anni. Si deve a questa generazione, o almeno a una sezione molto consistente di essa, una scelta inconsueta e per di più di un verso discutibile, la brusca e improvvisa rottura della continuità con quella precedente, e più in generale con le tematiche italiane. Se è vero che è del tutto legittimo che una generazione tenti di guadagnare il proprio spazio cercando di sottrarlo a quella precedente, è altrettanto vero che non è invece corretto, e in realtà neanche producente, negare la stessa competizione tra generazioni, fosse anche di tipo darwiniano, ricorrendo ad una vera e propria damnatio memoriae. Analizzando le difficoltà in cui si dibattevano gli architetti della generazione precedente, essi trassero la conclusione errata ma molto conveniente che si dovessero una concezione della disciplina rigorista e insieme tendenzialmente autografica le difficoltà che i loro immediati predecessori, che erano stati tra l’altro i loro docenti, incontravano. Difficoltà che non venivano rinviate alle loro cause strutturali, ma attribuite come difetti alle persone che le subivano. Verificando che in altri paesi, l’Olanda soprattutto, le occasioni di progettare e di realizzare si moltiplicavano, i post-cinquantenni decisero che, se avessero abbracciato le tesi di Rem Koolhaas , avrebbero senz’altro avuto lo stesso successo che ha riscossol’autore di “Delirious New York”. Una preferenza analoga fu rivolta al lavoro di Zaha Hadid nonché a quelli di un architetto a volte commerciale come David Chipperfield, o ambiguamente neoavanguardiste, come Steven Holl. L’adesione alle tesi dell’architetto di Rotterdam provocò il paradosso di attribuire a lui idee avanzate da architetti italiani fin dagli anni sessanta, come è avvenuto per la bigness, la gloriosa grande dimensione celebrata, e poi ripudiata, da Manfredo Tafuri quarant’anni fa. La stessa carica empatia non si è mai rovesciata in una critica necessaria e altrettanto determinata all’opportunismo koolhasiano, se non proprio al suo cinismo, così come nessuno degli esegeti dell’architetto olandese ha voluto verificare con la dovuta serietà la fondatezza delle ipotesi della città generica, alibi per una degradazione dell’intervento architettonico a evento segnaletico, o l’attualità di una visione dell’architettura ancora basata sull’idea vetro-modernista di scala. Molto interessante a conquistare una visibilità internazionale questa generazione ha causato con il suo strappo un danno consistente e forse irrimediabile all’architettura italiana, non riuscendo peraltro a ottenere l’obiettivo che si proponeva, vale a dire l’accesso a un livello professionale elevato, inserito nel circuito globale. Le loro opere sono a tutt’oggi numericamente inferiori a quelle della generazione che essi hanno contestato e il mercato estero sembra non aver corrisposto alle loro aspettative. Se la generazione precedente aveva fatto i conti con il post-modernismo, da essa stessa, comunque, almeno in parte provocato, gli architetti sopra i cinquant’anni hanno trovato nella mostra sul decostruttivismo al Moma, del 1988, il loro manifesto. Un manifesto da essi recepito in modo passivo, come segno di una dipendenza culturale rispetto alla quale non è stata messa in atto nessuna controproposta. Responsabili di aver sostituito la strumentazione disciplinare, ritenuta ormai obsoleta, con argomenti di natura eminentemente socio-antropologica i protagonisti di questa generazione, tranne poche eccezioni, hanno scelto un’architettura priva di quella densità di scrittura che richiede sempre un esercizio interpretativo. Abbracciando le istanze comunicative la loro architettura tende a porsi fuori del linguaggio in una dimensione situazionista e allusiva che cerca la comprensione immediata e il consumo rapido dei contenuti rapidi di ciò che si trasmette.

Rifiutando l’identità italiana, prima ancora che la stessa idea d’architettura italiana, gli architetti tra i quaranta e i cinquant’anni, hanno fatto proprio, con alcuni lievi correzioni e con pochissime ma significative eccezioni, orientate ad una innovativa reinterpretazione dell’identità dell’architettura italiana, il progetto culturale dei loro immediati predecessori. La loro è stata la prima generazione a confrontarsi con la rivoluzione digitale vivendola, però, più come l’ambito di un rinnovamento strumentale della disciplina che come l’occasione di una sperimentazione avanzata relativa a nuove prospettive teoriche per la cultura di progetto. Anche se, come si è detto, il loro progetto culturale riprende quello degli architetti della generazione precedente i rappresentanti di questo gruppo di progettisti hanno messo l’accento su un accentuato realismo strategico alla ricerca di un compromesso tra le ragioni della ricerca e quelle di una mediaticità architettonica ritenuta non solo inevitabile, ma anche intrinsecamente positiva. Anch’essi sintonizzati principalmente con l’Olanda e lateralmente con il Giappone, gli architetti pre-cinquantenni sono interessati a tutte le correnti e le culture vincenti, all’interno di una concezione della condizione globale che asseconda sostanzialmente quella logica, tipica della stessa globalizzazione la quale, secondo una progressione esponenziale, che premia le situazioni consolidate.

Il progetto culturale dell’ultima generazione oggi attiva, quella che annovera architetti dai trenta ai quarant’anni –la generazione dell’Erasmus– si pone in competizione, ma sullo stesso terreno, con quello descritto nel precedente paragrafo. Ancora una volta il problema di ricucire lo strappo effettuato dalla seconda generazione non viene sentito e si continua a ritenere che nel migliore dei casi l’architettura italiana sia una buona anamorfosi locale di problematiche estranee e lontane. L’enfasi asegnata al progetto di programma di Rem Koolhaas, o alla questione del diagramma come traccia analogica di un paesaggio teorico, è segnale di un preoccupante distacco dalle urgenze dell’architettura, sostituite dal sofisticato simulacro concettuale di una realtà che si ha forse timore di fronteggiare. Mai si troverà nella produzione saggistica dei giovani dell’ultima generazione un interesse per l’architettura argentina, brasiliana o danese, tanto per fermarsi a tre sole aree: solo gli Stati Uniti e il Giappone, solo la Francia, la Svizzera di Herzog e de Meuron, e l’Inghilterra mobilitano la loro attenzione. Anche la scena tedesca, che ha conservato la sua riconoscibilità storica e il proprio appartenersi attraverso un’apprezabile resistenza alle suggestioni dell’architettura spettacolo, è uscita dal cerchio magico dei loro interessi. Anche per questa generazione, come per le due che la precedono, la città non è più il luogo dell’architettura ma il terreno destrutturato e atopico di qualsiasi manipolazione installativa, lo spazio di un apparente sperimentalismo figurativo fintamente contestuale che si risolve non più nell’azione architettonica, che è sempre costruttiva e in fondo difficile, ma in una pura performance comunicativa che non ha bisogno di ostacoli. Mescolando un malinteso situazionismo con un’intrinseca soggezione alla moda, ibridando l’ineluttabilità dell’economia con un’esteticità strumentale, facendo leva sulla questione ecologica per programmare scenari ricompositivi dei conflitti prodotti dalla tecnica, gli architetti dell’ultima generazione si prestano, si spera involontariamente, a qualsiasi operazione di mercato nell’intenzione di intraprendere quel passaggio non più alla storia ma alla geografia nel quale Achille Bonito Oliva identifica metaforicamente la conquista al successo internazionale. Per contro si deve riconoscere agli architetti del quinto progetto culturale una nuova e sicura attitudine ad attraversare con innegabile energia e spesso con originale forza inventiva i vari linguaggi metropolitani unificandoli in un lessico che li trascende tutti, un lessico nel quale si recupera e si rilancia il sogno totalizzante delle avanguardie.

I cinque progetti culturali fin qui sintetizzati hanno dato vita a una complessa stratificazione tematica, ancora in gran parte indecifrata. Nel loro sovrapporsi si intrecciano in modo inestricabile i files relativi alla formazione, all’attività professionale, al mercato, alla ricerca teorica, all’insegnamento, all’informazione, al rapporto con altri linguaggi, con altre arti e con altre culture architettoniche. In questo ricco palinsesto l’alternanza di successi e di sconfitte si fa più o meno evidente a seconda dei parametri che si scelgono come riferimenti critici, mentre le singole biografie aggiungono al tutto il senso della deriva individuale e dell’eccezione ambientale. Qualsiasi analisi dell’architettura italiana, al di là della rivendicazione della sua vera o presunta identità, ma anche qualsiasi strategia progettuale che voglia inserirsi con qualche probabilità di riuscita nella situazione attuale, non può essere affrontata e realizzata se non all’interno del quadro variegato e conflittuale delineato dall’interferenza, dallo scambio, dallo scontro tra queste cinque linee strategiche. Progetti che sono attivi contemporaneamente, in una condizione insieme sotto e sovraesposta, dominata per un verso da una diffusa mancanza di fiducia in se stessi, se non proprio da una vera e propria autodenigrazione, per l’altro da un euforico estraniarsi ideale in altri contesti, come se un architetto di Roma, Latina o di Monza potrebbe sentirsi per davvero olandese. Negli anni venti un gruppo di giovani rivoluzionò l’architettura italiana importando da mondi problematici stranieri temi, motivi e strumenti. L’operazione riuscì perché i materiali esterni che allora furono scelti subirono un lungo e profondo processo di assimilazione che li trasformò, come nell’opera di Giuseppe Terragni e di Adalberto Libera, in materiali non solo interni ma soprattutto in elementi originali. La stessa cosa può succedere anche oggi, ma solo se si comprende che senza questo sapiente e faticoso lavoro di rielaborazione ciò che si preleva da fuori parlerà sempre un linguaggio oscuro e distante. Nello stesso tempo occorre tenere presente che non si può nutrire un forte interesse per le più ardue questioni teoriche e all’inverso, quando si deve intervenire nel concreto del paesaggio e della città, scegliere il realismo più riduttivo, contraddizione che segna in particolare l’azione delle ultime due formazioni di architetti. Mentre è necessario che la prima e la seconda generazione tra quelle interrogate in questo scritto si aprano in modo più diretto alle nuove problematiche che emergono dal dibattito disciplinare, è ancora più importante che, soprattutto la terza, non continui a pensare che negli anni ottanta si sia verificato un incolmabile salto epocale. Uno scarto epistemologico che avrebbe distinto un prima appartenente al passato da un dopo proiettato nel futuro. Solo ricostruendo una vera e operante continuità tra i cinque progetti culturali l’architettura italiana, o se si preferisce, l’architettura che si costruisce in Italia, potrà infatti ritrovare, ancora intatta, la sua capacità creativa.


Roma, 28.11.05
Franco Purini

mercoledì 21 novembre 2007

nasce minimadidattica

Che cos’è minimadidattica?

È un gruppo di lavoro, un’iniziativa editoriale, un contenitore di dibattito, un blog (www.minimadidattica.blogspot.com), che nasce dalle esperienze didattiche condotte negli anni all’interno degli insegnamenti a contratto del settore disciplinare ICAR 14, composizione architettonica e urbana, della Facoltà di Architettura di Napoli. È anche un’ipotesi di ricerca per ritrovare spazi all’interno di una comunità scientifica più ampia che, in occasione di confronti recenti, si è dimostrata oltremodo numerosa e composita annoverando ad oggi ben 508 docenti “strutturati”, di cui una quarantina nella sola Federico II.
Rappresenta il tentativo di sistematizzazione dei contributi didattici che una generazione di ricercatori, definiti tradizionalmente “giovani” (in relazione non tanto all’età anagrafica quanto, piuttosto, alla condizione sommersa), ha fornito in anni recenti nei corsi assegnati con contratto d’insegnamento annuale. Tale condizione, oggettivamente esterna alle tradizionali dinamiche di costruzione dei contenuti disciplinari propri delle scuole e alle università, ha consentito di misurare la distanza che oggi intercorre tra i differenti approcci all’insegnamento di quanti offrono didattica all’interno di corsi e laboratori.
Non è un mistero che, nelle scuole di architettura, esista una tendenza a riconoscersi più in relazione agli esiti progettuali (i prodotti dell’attività di laboratorio come pure gli esercizi e le tante attività ex-tempore) che non alle metodologie e ai contenuti teorici offerti nella didattica; un riscontro di ciò si è avuto nella mostra itinerante curata dalla Facoltà di Parma in occasione del Festival dell’Architettura 2006, successivamente ospitata presso numerose sedi universitarie italiane: una raccolta imponente di materiali dai quali scaturisce un livello pressoché inesistente di condivisione di “cosa” e “come” possa (e debba) essere insegnato ai diversi anni di corso nelle Facoltà di Architettura italiane. Un panorama, all’interno del quale, ancora più inconsapevole, emerge il ruolo degli insegnamenti “integrati” ai laboratori di composizione e progettazione.

Perchè minimadidattica?

In un anno vengono pubblicati circa mille nuovi titoli di architettura e urbanistica, perché pubblicare il milleunesimo? I blog su internet sono milioni, perché editarne uno di più? I seminari affollano il calendario delle Facoltà, perché appendere l’ennesima locandina?
Perché crediamo nella possibilità di condividere sistemi e metodi d’insegnamento.
Perché pensiamo che sia necessario superare una storica incomunicabilità tra le diverse ‘scuole’ o ‘maniere’, scoprendo insospettate affinità tra mondi presupposti lontani o imbarazzanti differenze tra presunti compagni di bottega.
Perché non diamo per scontato che si sappia/si possa insegnare architettura e riteniamo indispensabile dedicare alla questione didattica uno spazio di riflessione sulle differenti sperimentazioni in campo.
A partire dalla scena napoletana, si propone una discussione interessata a ricostruire un’ipotesi di lavoro comune, superando i localismi di sede, le simpatie per le diverse “maniere”, le presunte appartenenze a scuole spesso strumentalmente considerate distanti tra loro e, viceversa, a portare in evidenza le differenze esistenti in aree formalmente apparentate.
In questo panorama minimadidattica si pone un duplice obiettivo:
-ricostruire i contenuti minimi [o di base] di singoli corsi che hanno operato, e operano, a diverso titolo all’interno di numerosi corsi di laurea che operano in seno alle facoltà di architettura italiane;
-individuare, in questa didattica “minima”, modalità, approcci, punti di vista che attraversano e informano, come un progetto più ampio, il corpo disciplinare Icar 14.
Partire dal “già fatto” per rileggerlo in chiave critica, assegnando un primato ed una centralità alla materialità dell’architettura, da cui partire di volta in volta secondo punti di vista, tradizioni, prassi operative differenti alla ricerca di un medesimo argomentare.

la redazione minima
claudio finaldi russo/stefano memoli/ carmine piscopo

call for... cards!

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Si può insegnare architettura?
una cartolina, tre domande, mille caratteri per lo stato dell'arte dei 'nuovi' corsi di composizione

1. qual è lo slogan del tuo corso?

2. qual è il rapporto che il corso instaura con le architetture? cosa e come si ri-disegna?

3. integrazione orizzontale/ verticale: qual è la relazione che il corso costruisce con gli insegnamenti affini?